1998 - Arte, una tesi

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Il lavoro del pittore si basa sulla visione come strumento primo della conoscenza e sulla durata estrema di questa visione.

Poiché nella durata si fondono l'istante e l'eterno, l'ambizione del pittore è di sottrarre al corrompimento l'immagine che la pittura consegna nella sua non peribilità.

Ha dichiarato Cézanne: "Tutto quello che vediamo si dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di essa, di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della durata, deve farcela gustare eterna".

C'è un passaggio molto intenso di Bergson, che tocca un punto fondamentale per il pittore che si disponga a dipingere, negli oggetti, nella natura, la durata: "Nessuna immagine sostituirà l'intuizione della durata, eppure molte immagini diverse prese dagli ordini di cose molto differenti potrebbero, agendo insieme nel loro movimento, far volgere la coscienza proprio verso il punto in cui una certa intuizione diventa concepibile".

In una delle prime pagine del suo Canto alla durata, Peter Handke scrive cose bellissime:

E mi venne così di descrivere la sensazione della durata

come il momento in cui ci si mette in ascolto, il momento in cui ci si raccoglie in se stessi,

in cui ci si sente raggiungere da cosa? Da un sole in più, da un vento fresco, in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondono assieme.

"Ci vogliono giorni, passano anni": Goethe, mio eroe e maestro del dire essenziale, anche questa volta hai colto nel segno:

la durata ha a che fare con gli anni, con i decenni, con il tempo della nostra vita: ecco, la durata è la sensazione di vivere.

Senza il senso della durata non esiste pittura, soprattutto non avrebbe raggiunto quei livelli di spazio e nitidezza quella di Cézanne.

 Ad esempio, ne I pioppi (1879-1882 circa, olio su tela, 65 x 81 cm, Musée d'Orsay), Cézanne si basò più sulla forza evocativa della linea e della pennellata che sul colore. Nel suo inventario il mercante di Cézanne, Ambroise Vollard, registrò questa semplice descrizione del dipinto: "Paesaggio completamente verde, sipario d'alberi che occupa circa i tre quarti del quadro; in primo piano una struttura di mattoni, dalla parte opposta una strada serpeggiante…". Il quadro è questo, niente di più. La dominante sensazione di armonia strutturale è dovuta all'uso della linea. Innanzitutto c'è una rigorosa differenziazione della composizione che l'artista ottiene variando i gradi di densità della struttura lineare. I pioppi sulla destra sono concepiti come una parete chiusa, la loro funzione è compendiata dall'ostruente muro di mattoni che preclude qualsiasi idea di profondità, mentre, a sinistra, il filare d'alberi gradualmente si allenta in una curva lasciando spazio all'aria, al cielo, allo spazio. Qui la minuscola spirale dei meandri della strada riprende l'elegante allentamento della coerenza. All'interno di questo schema compositivo globale, il parallelismo dei tronchi degli alberi conferisce alla superficie una struttura lineare ritmica, che si ritrova nelle uniformi pennellate direzionali del fogliame. La direzione di queste pennellate, in quanto esito del gesto pittorico, determina uno schema di deliberata stilizzazione che trascende ogni divisione del colore. Soltanto al di sopra del muricciolo, là dove la cima degli alti pioppi è tagliata fuori dalla cornice, le pennellate seguono l'andamento degli esili tronchi creando uno schermo denso che, al pari del muro bianco, assorbe il movimento interno della strada sabbiosa. Mediante quest'uso differenziante della linea il pittore sembra aver voluto creare il massimo contrasto tra la profondità e la piattezza.

La montagna Sainte - Victoire (olio su tela, 54 x 65 cm, Stedelijk Museum, Amsterdam) è del 1888. Per la resa dello spazio questo dipinto, diversamente da I pioppi, sembra affidarsi al colore. In questo paesaggio i colori sono disposti nello stesso ordine in cui si susseguono sulla tavolozza, a cominciare dalle ocre e dai bruni in primo piano, ravvivati dai verdi, per concludere con gli azzurri trasparenti del cielo. Nel passaggio dal basso verso l'alto, i verdi e i rossi forniscono indizi visivi minimi ma determinanti per la strutturazione del paesaggio, mentre agli azzurri è concessa una sporadica presenza nella valle e la cima del monte ha un'atmosfera color ocra. La profondità è suggerita non tanto da una dimensione decrescente del dettaglio quanto dalla reiterazione di forme sovrapposte e contrasti di colore. Il primo piano, rossiccio e verde, è possentemente presente in contrasto con gli azzurri degradanti della parte alta.

Le pennellate non sono rigorosamente sistematiche come lo erano ne I pioppi, appaiono invece esitanti e irregolari, a volte giocose e decorative. Le linee blu che strutturano il dipinto non sono mai veramente linee, anch'esse sono esitanti, sempre rotte e riprese, al pari dei tocchi di colore che in nessun punto formano una superficie chiusa. Spesso traspaiono bagliori del suolo e molte zone non sono neppure dipinte, come avviene in un acquerello. In una lettera, Cézanne si lamentava che a causa del suo metodo operativo i piani "cadevano gli uni sugli altri", impedendogli di attuare una corretta rappresentazione dello spazio (lettera a Bernard, Aix-en-Provence, 23 ottobre 1905). Non la piattezza della superficie pittorica, ma la realizzazione di una prospettiva corretta era la costante preoccupazione del pittore. Egli voleva realizzare l'idea di spazio tracciando "linee perpendicolari all'orizzonte" - quelle degli alberi, dobbiamo supporre - e rendendo palpabile la presenza della luce suggerita da "les rouges et les jaunes", i rossi e i gialli. Soltanto in questo modo sarebbe stato possibile ottenere una convincente rappresentazione della natura poiché "per noi esseri umani, la natura è più nella profondità che nella superficie". Dipinti quali I pioppi o La montagna Sainte-Victoire vanno analizzati non come composizioni su un piano, ma soltanto come scrupolosissimi tentativi di creare lo spazio mediante la linea o il mezzo cromatico. Il tema spazio/tempo viene ripreso dai cubisti. Nella rivoluzione cubista Picasso rappresenta la forza di rottura, Braque il rigore del metodo.

Confrontando la Natura morta spagnola (1912, olio su tela, ovale di 46 x 33 cm, collezione privata) di Picasso e la Natura morta con l'asso di fiori (1911, olio e papier collé su tela, 81 x 60 cm, Parigi, Musée National d'Art Moderne) di Braque emergono le analogie generali e le differenze specifiche tra i due artisti.

E' analoga la scelta tematica, il dato oggettivo del problema: una natura morta, pochi oggetti sulla tavola. E' analogo il processo di assimilazione strutturale di cose e spazio: se lo spazio dev'essere una forma omogenea e unitaria non può essere interrotto dalla consitenza materiale, impenetrabile delle cose. Lo spazio non è nulla di esistente in sé, è la realtà ordinata e configurata nella coscienza: dunque nella forma dello spazio non può esservi nulla di incerto, di illusorio, di allusivo. Le sole dimensioni certe, nella realtà, sono l'altezza e la larghezza, che si traducono rispettivamente nella verticale e nell'orizzontale; la terza dimensione è illusiva.

Nei due quadri la struttura è formata dalle coordinate cartesiane, che risolvono in verticale tutto ciò che è altezza, nell'orizzontale tutto ciò che è larghezza.

Al di là dell'analogia strutturale, nel quadro di Picasso la scomposizione appare, nello stesso tempo, meno e più spinta. Meno, perché c'è ancora una separazione tra un agglomerato di volumi (gli oggetti) ed un fondo; più, perché questa separazione è poi annullata, di colpo, dall'inserto, in primissimo piano, di due riquadri rossi in evidente rapporto col fondo rosa, sicché risulta chiaramente misurata la distanza tra i due piani, cioè la profondità entro cui si sviluppano i volumi. Lo schermo pittorico diventa così uno schermo plastico, come la lastra di un bassorilievo.

Braque elimina la distinzione tra volumi solidi e fondo. Smonta pazientemente la volumetria degli oggetti, riduce tutto a forme piane giustapposte. La sua scomposizione è più spinta perché non discrimina tra spazio e oggetti; meno, perché non può arrivare ad assorbire totalmente le forme delle cose, che infatti, in quello spazio non più capiente, sopravvivono come puro residuo grafico (grappolo d'uva, mela, carte da gioco).

A questo punto si pone il problema della terza dimensione, di tutto ciò che, sviluppandosi in profondità ci dà alla visione in termini di illusione ottica e che, per conseguenza, apre la via alle reazioni emotive, all'intervento dell'immaginazione, della memoria, del sentimento. La via, dunque, che il Cubismo, come nuova e più rigorosa oggettività, vuole bloccata.

Tanto Picasso che Braque risolvono il problema della terza dimensione mediante linee oblique (già indicative della profondità) e curve (già indicative del volume), e cioè riportando sul piano ciò che si dà come profondità o risalto. Qui intervengono i contenuti della coscienza, le nozioni che si hanno degli oggetti (ed è questo l'aspetto tipicamente cartesiano del Cubismo, quello che lo inquadra nel razionalismo di fondo della tradizione culturale francese). Si opera su oggetti assolutamente noti: frutta, piatti, bicchieri, bottiglie, strumenti musicali, ecc. Ora un piatto posato su una tavola si vede come una forma ellittica, ma si sa che invece è rotonda: poiché, nell'ordine mentale, tra ciò che si vede e ciò che si sa non v'è differenza di valore, si sviluppa nel quadro anche la rotondità del piatto, cioè si dà a ciò che sta nella terza dimensione la stessa certezza che hanno i valori misurabili sulle coordinate verticali e orizzontali. Con la nozione dell'oggetto (che si ha da prima), entra in gioco il fattore tempo: è come se prima si vedesse il piatto come forma ellittica e poi, mutando la posizione nello spazio, come forma tonda, o come se, muovendosi intorno all'oggetto e mutando il punto di vista, prima lo si vedesse ellittico e poi rotondo.

Se ne deduce che, se nella veduta empirica lo stesso oggetto non può trovarsi nel medesimo tempo in luoghi diversi, in quella realtà tutta mentale che è lo spazio (come realtà ordinata e configurata nella coscienza) lo stesso oggetto può esistere con più forme diverse che, naturalmente hanno situazioni diverse. Muovendo da questa premessa comune, Picasso e Braque operano in modo diverso. Picasso, a cui degli oggetti interessa soprattutto la plastica volumetrica, conserva il chiaroscuro che plasma i volumi: ricostruisce le cose nella continuità dello spazio mediante forme geometriche, che considera fondamento unitario così delle cose come dello spazio. È infatti costretto a ribaltare più volte la prospettiva tradizionale (come si vede nel bicchiere, in alto, che è veduto simultaneamente da punti di vista diversi); il funzionamento interno del suo quadro consiste appunto in questi movimenti prospettici coordinati. Braque, non scomponendo per volumi ma per piani, elimina il chiaroscuro, trasformandolo in variazioni cromatiche di grigi. Va addirittura oltre Picasso: nel medesimo oggetto, la tavola, disgiunge la forma, che ribalta sul piano come una sagoma nera, dalla materia, il legno, che raffigura come componente ambientale diffondendolo on tutto lo spazio con il procedimento del trompe-l'oeil (passaggio necessario al collage) la sensazione non solo visiva, ma tattile, della superficie ruvida, venata. Nell'uno e nell'altro dipinto vi sono lettere alfabetiche che apparentemente non hanno alcun rapporto con gli altri oggetti. Sono tipi formali, moduli: stanno ad indicare che gli oggetti della realtà sono come le lettere dell'alfabeto, segni che in sé non significano nulla, ma che vengono combinati in vari modi per significare qualcosa (nel caso degli oggetti, lo spazio). Per Picasso le lettere sono fatte di rette e di curva, cioè degli stessi segni con cui rende le tre dimensioni: essendo lo stesso il principio della significazione verbale e visiva, egli inserisce le lettere alfabetiche, che tutti conoscono, come chiave o codice di lettura del quadro. Per Braque, che scompone per piani, le lettere sono figure piane che hanno, rispetto alle cose concrete, una funzione emblematica: come le carte da gioco indicano il piano limite su cui gli oggetti (uva, mela) si riducono a simboli grafici. Sono chiavi di lettura, ma di una lettura tutta diversa, per piani cromatici invece che per volumi. È chiaro che la visione secondo il volume proposta da Picasso e quella secondo il colore proposta da Braque sono integrative, tuttavia il quadro di Braque, in cui il rapporto coloristico più forte è tra il giallo ocra del legno e il nero della tavola, sembra coloristicamente meno intenso di quello di Picasso, in cui il rapporto più forte è tra un rosa e un rosso. Braque opera sul colore come Picasso sui volumi: non lo considera più come sensazione visiva, ma come elemento essenziale della costruzione mentale dello spazio. È un fatto intellettuale e non più sensorio, infatti riesce a rendere come colore e perfino come luce le variazioni di grigi (spesso ottenuti soltanto con un tratteggio a matita).

In quegli stessi anni, la "sintesi dinamica" teorizzata da Boccioni come una delle grandi scoperte del Futurismo, è in contrasto con l'analisi cubista: questa implica un approfondimento del dato ed un processo logico, mentre per Boccioni l'emotività immediata e traumatica rimane la condizione prima dell'arte. Il movimento è velocità, la velocità è una forza che interessa due entità: l'oggetto che si muove e lo spazio in cui si muove. La sensazione che si riceve da un corpo in moto e da quella delle cose che stanno ferme nello spazio circostante ma sembrano muoversi con la stessa velocità, del corpo in direzione opposta. Forma unica significa forma unitaria del corpo che si muove e dello spazio in cui si muove. Lo spazio è atmosfera, l'atmosfera è messa in movimento dal corpo che la fende ed esercita su di esso una spinta proporzionale alla velocità. Il corpo, sotto questa spinta, si deforma fino ai limiti dell'elasticità.